IN SILENZIO IN CORO

in In silenzio e in coro, in V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore. Teatri del secondo Novecento, Bulzoni

Roma 2012

 

 

 

non è sufficiente quanto la tecnica si affanna ad insegnare.

non è mai completamente pertinente.

la voce è viva, potenziale ed indomata.

non possiamo averne mai pieno controllo, né accanirci oltre la misura che ci è data, la misura che ci è diventata, che siamo riusciti nel tempo a migliorare, quella che abbiamo a un certo punto capito un po’ di più.

l’imperfezione di ogni voce è la sua natura stessa, la bellezza è incompletezza, premiata solo grazie all’eco che è capace di suonare nel cuore o nell’altrove di chi ascolta.

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la voce è il suono che arriva dal respiro.

è il respiro suonato ciò che noi chiamiamo voce.

la voce è insieme suono e senso.

la voce è il teatro del respiro.

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dal palcoscenico ogni suono è una questione, ogni rumore.

il rumore di ogni corpo, dell’azione, il rumore degli occhi oltre lo sguardo.

il rumore di tutta la platea e quel silenzio che è improvviso, consolante, sempre nuovo, enorme ma così leggero di quando lo spettacolo riesce.

il silenzio è la misura di quanto siamo, di chi siamo e chi possiamo insieme.

il silenzio è la voce che si compie, ci completa.

dove la musica si ferma ad aspettarci.

dove ogni suono inventa.

dal palcoscenico la questione è ogni silenzio.

il silenzio di ogni attore o spettatore, il silenzio delle cose, un gesto, un’intenzione, il silenzio dello spazio, il silenzio collettivo, il tempo del silenzio.

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ogni platea partecipa a quello che dal palco si propone.

l’accordo del silenzio è la voce degli spettatori.

la condizione necessaria, la prima aspirazione.

lo spettacolo invita innanzitutto al silenzio tutti insieme.

per metterci in ascolto e in relazione, dire meglio, proporci di continuo mentre lo spettacolo succede.

in silenzio è interlocuzione.

ogni attore è in dialogo col buio oltre il proscenio e con la voce muta dello spettatore.

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ho impiegato tutto il tempo del mio lavoro per scrivere queste poche frasi (e so che hanno solo il valore di un pensiero. un pensiero mai a riposo e in continua evoluzione).

negli ultimi dieci anni, particolarmente grazie alla pratica di vari sistemi per l’amplificazione: dai microfoni al motion capture, all’aurofonia.; dalla voce addosso alla voce intorno, veicolata, distribuita, dai risuonatori del corpo dell’attore fino ai differenti mondi dell’universo microfonico, dai vari gradi della stereofonia, all’effettistica usata come grammatica di un dire che sovrascrive la drammaturgia, dalla distribuzione dei diffusori e fino all’architettura di ogni sala.

abbiamo frequentato sperimentazioni, amplificando tutto quanto ci è stato possibile, all’interno di un progetto intitolato RADIOVISIONI e attraverso spettacoli come BUIO RE – da Edipo a Edipo in radiovisione; PER ECUBA – Amleto, neutro plurale; UBU INCATENATO; LE MADONNE; IAGO – concerto scenico con pretesto occasionalmente shakespeariano per voce dissidente e musica complice; DESDEMONA E OTELLO SONO MORTI;

abbiamo avuto l’occasione di produrre per la radio, di curare drammaturgia, regia, messa-in-voce della sezione teatrale di un programma di RADIO3 o di adattare testi come CAVALLERIA RUSTICANA di Giovanni Verga e SPLENDORE E MORTE DI JOAQUIN MURIETA di Pablo Neruda.

attraverso il motion capture abbiamo amplificato l’azione sulla scena, interpretando l’esoscheletro indossato dall’attore come un microfono del corpo; con i settaggi per l’aurofonia abbiamo invece ribaltato la questione dal palco alla platea, amplificando non la voce degli attori, ma l’ascolto degli spettatori.

la necessità di rimanere dentro lo spettacolo, a dispetto di qualsiasi effettistica o esibizione tecnologica è stato il nostro unico obiettivo.

abbiamo applicato pensieri ai risultati, e convinti a un certo punto che la voce e il suono entrano in scena per disabitare, per produrre antimateria.

la scena è insieme il suo contrario. è il suo doppio, il suo rovescio, il negativo,

la scena è contemporaneamente l’antiscena.

l’amplificazione non aumenta quanto detto, ma il silenzio intorno.

prima di ogni altra voce o suono, l’amplificazione amplifica il silenzio.

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per il fascino che la dimensione metateatrale ha per noi all’interno di ogni nostra produzione, per la capacità, cioè, che il teatro ha di perdersi coscientemente, il palcoscenico è già di suo un’amplificazione.

ogni quadro che si apre oltre un sipario ha insieme la vista generale e l’occasione del dettaglio. il teatro amplifica sguardo, ascolto e relazione, ogni senso ed ogni sospensione.

il teatro amplifica il silenzio.

per questo riusciamo a parlarci dentro come mai potremmo altrove.

per questo ci si può ascoltare.

l’accordo segreto dello stare è tra realtà e finzione, nel paradosso che è la parte di ogni attore e nel paradosso di ogni spettatore.

insieme è la condizione necessaria perché la convenzione resti attiva, produttiva e possa addirittura, in certi stati di grazia, superarsi.

è un concetto che penso fondamentale, perché ci slega dalla passività della partecipazione che può essere vinta solo dalla coscienza che in ogni singolo diventa collettiva.

consapevolmente.

consapevolmente disponibile.

consapevolmente disponibile alla collettività che siamo.

alle piccolezze o grandezze che possiamo.

ogni stimolo reale che viene dai confini della finzione, dalla ripetizione di ogni replica, dall’unicità di ogni appuntamento sposta un po’ più in là quanto sappiamo di sentire, quanto capiamo o accettiamo di non spiegarci poi davvero.

ogni moto “a perdere” vince un po’ di strada in più; ogni volta che saltiamo sulla sedia, una poltrona, panca, su un cuscino messo a terra, smettiamo d’esser soli; quando chi agisce la scena respira insieme ad ogni spettatore, quando chi è in scena reagisce al teatro e lo fa invitando di continuo ogni spettatore, quando ogni spettatore riconosce l’occasione dell’appuntamento, quando insomma il teatro succede, succede insieme.

in silenzio, in coro.

 

Roberto Latini