APPUNTI PER UN ELOGIO DEL SIPARIO

In "SPETTACOLO DELL'ANNO" 

www.doppiozero.com

31 dicembre 2017

 

 

Scrivo con piacere intorno a un tema intrattenibile, mutabile, ma come fosse possibile.

Scrivere è già di suo un teatrino, con tutte le caratteristiche della scena che si apre oltre la grammatica evidente e, a proposito delle parole, so che certe poche volte si combinano e altre spesso che-peccato non combinano un bel niente. Un po’ come il Teatro.

L’assoluto certamente non è dato. Resterò coscientemente nel relativismo, come la percezione insegna. Vorrei dire perciò (però) non di quanto visto, ma del Teatro che vorrei, di quello che ho creduto forse di vedere, di quello che spero, quello fuori dall'architettura di progetto, senza la sapienza che diventa strategia; di quello che non si rappresenta, che schiva la recita, che non è intrattenimento, che non reclama la visione, né del tempo, né dello spazio scenico. Quello che non mortifica lo sguardo e ogni aspirazione. Che non pretende, non presume.

Non posso definirlo dentro una tendenza, ma vorrei parlarne invece intorno alla tensione.

Quando il Teatro accade, cade, piove improvvisamente addosso e intorno e dentro a se stesso, come la fantasia del Purgatorio di Dante o di Calvino a proposito di Visibilità.

Approfitto per scrivere invece qualche appunto intorno a quale penso sia per me l’occasione del sipario che si apre alla platea o di quando sono spettatore, “a-spettatore", di cos’è che spero, aspetto, aspetto e spero, senza averne nemmeno mai davvero capacità o certezza di coscienza.

Ci giro intorno, come in un corteggiamento che mi illude, che mi fa credere di potervi essere ammesso, mi fa credere di poter credere, perché è questo credere che voglio, fortemente, tra le luci artificiali del palco o nel buio innaturale di platea. Il patto è stabilito, me lo ricordo sempre.

Penso al sipario che si apre, all’inizio, come le braccia che ci tengono tra le braccia e che si chiude, alla fine, come tra le braccia che ci tengono tra le braccia.

Il sipario è la questione, l’emozione, anche quando non c’è.

Anche quando non c’è, mi sembra di vederlo sempre.

Nel I atto di La Tempesta, Prospero dice a Miranda:

“The fringed curtains of thine eye advance and say what thou seest yond.”

“Spalanca il frangiato sipario dei tuoi occhi e dimmi cosa vedi laggiù”

Lei risponde.

“What is ’t? A spirit?”

“Che cos’è? Uno spirito?”

Ci penso.

Ci penso sempre.

Ci penso sempre in tutte le decisioni che decido mentre sono in scena e anche in quelle di quando sono seduto lì davanti e un Prospero qualsiasi, dal palco, mi pone la domanda.

Vorrei rispondere come Miranda, sempre.

Sono così quando sono spettatore.

Vorrei chiedere cos’è, senza davvero saperlo, col rischio reale di non capirlo davvero.

Vorrei rispondere anch’io con una domanda e dire: “È uno spirito?”

Ci penso.

Ci penso sempre.

Nel I atto di I Giganti della Montagna, Cotrone dice ai suoi:

“Su, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli!”

Immaginazione!

Lo dice rimproverando la paura, nella bellissima certezza esclamativa di chi sa come vincerla la paura, di chi sa che vincerla si potrebbe.

Immaginazione! Un esortativo definitivo. Un’esortazione che definisce la questione, risponde alla domanda.

Prospero e Cotrone, così lontani e così vicini, ed entrambi all’atto I.

Shakespeare e Pirandello, così vicini e così lontani, ed entrambi nell’opera testamento,

nell’ultima scena del loro scrivere, sospesi e magici come quei protagonisti.

Ci penso.

Ci penso sempre.

Tra i pensieri pensati, i tra i pensieri pensanti altri pensieri, la sfida è a quel che sembra, a quel che capisco, alla velocità con cui posso capire, con cui mi sembra di capire, di tenermi nella sollecitazione della curiosità, del verosimile, del probabile, del potenziale.

Il Teatro non è conquista, certamente non certezza, non ne ha a che fare, non può darne – a chi interesserebbe veramente?

Questo è quello che spero quando sono in platea, quello che aspetto; questo è quanto aspetto e spero quando dal palcoscenico lo vedo che quel buio lì di fronte vuole dirmi che il vedere non si vede.

Quello è il buio che si sente.

Dal sipario in poi, non si può guardare, si può sentire solamente.

"Sentire” è, insieme, ascolto e sensazione.

Ecco, come quando tra le braccia,

come di fronte a un sipario.

 

Roberto Latini